Un esperienza vissuta qualche mese fa .....
Mi sono ripromesso di spegnere quella parte di cervello che mi tiene legato alla famiglia, al lavoro, agli amici. Con lo sguardo al soffitto mi rendo conto che non rimane molto da pensare, mi addormento quasi subito senza rendermene conto.
Il rumore di un pullman dalla strada sottostante mi risveglia bruscamente, intorpidito dalla precedente notte anomala fatico a muovermi, l’orologio indica che è pomeriggio inoltrato.
Ho sempre parlato molto con me stesso, forse mai profondamente, ma ho una certa abitudine nell’interrogarmi. Ora sono qui, intenzionalmente, occasione forse unica per gustarmi la solitudine relativa, quel distacco dagli affetti, dagli impegni e da tutto ciò che è quotidiano.
Una doccia bollente mi risveglia infondendomi quel senso di piacevole calore nelle ossa. La camera è molto accogliente, ma solo per il fatto che è fatta di muri, soffitto e pavimento, mantiene quella forma di sicurezza istintiva derivante dal senso protettivo della caverna dei nostri avi. Questa riflessione mi spinge a vestire con impeto per uscire dall'albergo a cercare nuovi stimoli.
Passeggio mani in tasca per le vie dell’accogliente Canazei, un negozio espone cartine della zona, sono tracciati tutti i sentieri più frequentati, ecco come dedicherò il tempo necessario alla disintossicazione, camminerò tanto per farlo, guardando e godendo le bellezze naturali.
Preso da questa nuova intenzione mi appresto allo studio della cartina seduto su una panchina in legno incisa di fiori e figure di animali. Non conosco questi posti, non so dove sono né perché sono qui, ma voglio approfittarne.
Tornato in albergo ho solo il tempo per un’altra doccia bollente per poi potere gustare le specialità locali. Stanza 304 signora, dove posso accomodarmi per la cena? Vengo subito accompagnato in una saletta interna e fatto accomodare nell’unico tavolino per singoli. L’imbarazzo iniziale è il sentirmi gli occhi degli altri commensali addosso , famiglie o coppie che parlottando cercano giustificazione per una persona ancora giovane e dall’aspetto distinto, seduta sola mentre con occhi seri analizza le particolarità di quel locale caratteristico, cercando di non incrociare gli sguardi curiosi. Non è un albergo per viaggiatori, né io ho il comportamento da rappresentante. Questa constatazione mi fa agire nel modo più sciocco, come ad esempio leggere con attenzione quanto scritto sulla busta dei grissini torinesi e sull’etichetta della bottiglia dell’acqua.
Intenzionalmente svuotato dai pensieri logistici, quando ormai vedo scemata la curiosità dei diversi volti, inizio con la coda dell’occhio ad analizzare ogni tavolata. Mi diverte supporre il motivo della loro presenza. Quella giovane famiglia, lei molto grassa, con una vivace bimba di pochi anni, non può essere qui per salite alpinistiche e neppure per lunghe passeggiate. Immagino i nonni qualche giorno prima consigliare i ragazzi di portare la bimba in montagna perché c’è l’aria buona e loro, annoiatissimi, ora sopportano la settimana regalata per il bene della figlioletta affogandosi nel cibo, unico momento piacevole della giornata.
Quell’austriaco del tavolo di fronte, anche non avesse parlato avrei riconosciuto le origini sue e della moglie, il viso ed il fisico sono una identificazione chiara per certi popoli; è quasi divertito quando fatica ad intendersi con la cameriera Italiana di origini meridionali perché gesticolando con discrezione ha modo di esprimere sillabando il poco Italiano che conosce.
Realtà, vite, ognuna apparentemente anonima ma sicuramente fatta di tanto ed io sono fra queste entità.
L’ultimo sorso all’immancabile grappa mi consente di alzarmi per andare in camera. Buona sera signori …. un vociare tra saluto e sorpresa mi accompagna mentre esco dal locale.
Dopo una breve passeggiata mi infilo a letto.
E’ l’alba, un buon completo da trekking acquistato la sera prima ed eccomi perfettamente inserito nell’atmosfera del camminatore, prendo l’auto e raggiungo il passo Pordoi, l’aria è penetrante, d’altra parte è molto presto. Come d’istinto mi infilo in uno dei due bar presenti. Un buon caldo caffè non può che darmi ulteriore stimolo, provo ad abbozzare le mie intenzioni alla signora al bancone ma capisco subito che il suo è un rispondere abituale, annoiato, di commenti ripetuti mille volte, vorrebbe che parlassi di mare, di sabbia calda, di discoteca, e così mi zittisco concentrandomi sulla tazza.
Il passo è a 2200 metri di quota, ad ottobre la mattina fa veramente freddo, imbraccio i bastoncini avviandomi per la mulattiera che mi porterà dove voglio, verso quell’evidente canalone di ghiaia che molto più in alto si inserisce fra due enormi pareti di rocciosa dolomia. La salita si sviluppa in un colatoio di pietre, miliardi di piccole pietre che negli anni si sono staccate rovinando a valle. Un continuo zig zag di sentiero che gradualmente si inerpica sempre più ripido e meno evidente. L’immagine di queste imponenti pareti mi mette soggezione ora che sono più vicino, proseguo lentamente, non ho fretta, cerco di cogliere ogni sensazione che mi tocca l’animo. Raggiunto il colletto ho qualche problema nel proseguire per la destinazione scelta, la punta Buè, una recente nevicata, gelata dalla notte, rende il percorso infido e pericoloso, non avendo attrezzatura specifica perché sto camminando con delle adidas da corsa, non mi resta che sedermi ad ammirare il panorama in attesa che i raggi del sole rendano molle e calpestabile quella lingua di neve che dovrò obbligatoriamente percorrere.
Mille pensieri mi si insinuano durante quella sosta forzata, guardo in basso scorgendo le minute abitazioni sparse nella valle, poi lentamente, alzando lo sguardo, ammiro i monti di fronte, per poi andare oltre, alla catena montuosa appena dietro e poi ancora a quell’altra fino ad arrivare con l’immaginazione alle mie montagne, quelle di casa mia. Subito una forte commozione mi blocca il respiro, senza volerlo, senza esserne pronto, inizio a lacrimare. Trovo piacevole sentire quella leggera pressione all’altezza dello sterno, i singhiozzi che man mano si fanno più violenti per poi lasciarmi andare in un pianto aperto, libero, li sento come fratelli in aiuto.
Sono solo, a 3000 metri di quota, in mezzo al niente, lontano centinaia di chilometri da casa e sto piangendo come un bambino.
La serenità del sentire scemare lentamente un atavica tensione interna, quel cercare di amplificare l’emozione del pianto tramite ricordi famigliari, visi amati mi fa sentire meno solo, so di essere con me stesso.
Come una luce che si avvicina, inizio a vedere un percorso nuovo.
Mai provata un emozione così intensa, così naturale senza surrogati esterni. Le lacrime diventano incontrollabili, non faccio niente per limitarle. Grido molto forte, un urlo, non di dolore, neanche di richiamo. Un urlo di liberazione come se tramite i polmoni emettessi gran parte del nero che sento dentro. Erano anni che non urlavo, erano anni che non piangevo.
Vorrei questo momento per sempre.
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