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"Febbraio. La mia tenda era coperta da un sottile strato di ghiaccio. Tutti i giorni mi rintanavo dentro per quattrordici ore. Quando finalmente mi resi conto che il sole stava scaldando tutto l’ambiente circostante, uscii e mi diressi verso i bagni comuni. Mi resi conto di essere felice mentre facevo una pisciata nel cesso del campeggio comunale “Les Cedres”. Quasi tutti, ancora, dormivano. Dormiva Brunò e gli altri abitanti stanziali delle vecchie roulottes. Dormivano gli inglesi nelle loro tendine monoposto da alta quota. Dormiva tutto l’accampamento degli spagnoli, con i loro vecchi furgoni Volkswagen, posti in circolo attorno ai vari tavolacci recuperati indebitamente dalle altre aree del campeggio e affiancati a costituire il luogo della fiesta serale, ricoperti di piatti sporchi incrostati, bottiglie di birra vuote e lattine mezze schiacciate. Dormiva la bionda americana, che avevo sentito, con grande invidia, lungamente gemere nella tenda del selvaggio scalatore basco con la coda di cavallo. Io non avevo fatto nessuna fiesta. Non conoscevo quasi nessuno e come al solito, appena fatto buio, dopo la scalata, mi ero rinchiuso nel sacco a pelo. Avevo cucinato la pasta dentro la tenda, scolato l’acqua per terra appena fuori l’entrata, senza neppure uscire dal mio involucro, e avevo cominciato a leggere. Ero timido e sognatore, e tutto quello che stava accadendo in quel periodo, in quel campeggio, lo vivevo restando al margine.
Il campeggio municipale di Apt, vicino Buoux, era diventato il nuovo Camp IV, la cittadella della scalata mondiale, il posto dove si stavano inventando i gradi che avrebbero marcato la nuova era. Vivere a “Les Cedres” costava appena 3 franchi al giorno. Ci abitavano gli inglesi più forti, che stavano salendo tutte le vie più dure, sopravvivendo col sussidio di disoccupazione, che la legge britannica prevedeva, e che a “Les Cedres” bastava e avanzava. Ci svernavano gli spagnoli, che campavano vendendo il fumo agli ultimi fricchettoni rimasti in circolazione. Ci passavano gli americani in trasferta in Europa, e alcuni ci rimanevano, perché si invaghivano di qualche bella francesina scalatrice. Ancora non si vedevano gli est-europei, e la grande invasione dei tedeschi doveva ancora cominciare.
A Buoux, il settore frequentato dagli scalatori più ambiziosi si chiamava “la fine del mondo”. Tutti i giorni, per tutto l’inverno e parte della primavera, c’erano almeno due o tre persone di nazionalità diversa che provavano a salire “La rose et le vampires”. In quel periodo, nessun’altra salita di grado 8b, in nessun’altra parte del mondo, avrebbe conferito lo stesso rispetto e prestigio. Il mitico incrocio: tutto il corpo che passa sotto al braccio destro, per poi srotolarsi restando appeso soltanto a due falangi di una mano. Altri si cimentavano nella più facile, ma sempre mitica “Choucas”. E il suo famosissimo lancio. Io, timidamente, cercavo qualcuno che mi assicurasse su “Le Minimum”, la più difficile, oppure “Tabou Zizi”. Quelle rare volte che riuscivo a far capire agli altri, senza sbruffoneria, di aver già salito sia “La rose“ che “Choucas”, venivo accolto a pieno diritto in quella tribù internazionale.
Poi c’erano i tiri in alto.
Ben Moon stava appeso tutto il giorno lassù, sopra la “Croisette”, provando e riprovando una vecchia via di artificiale, che lui voleva liberare, e aveva ribattezzato “Agiuncour”, come una famosa battaglia vinta dagli inglesi sui francesi. Da quel balcone pensile partivano vie che sembravano appese direttamente al cielo, e quando ci si scalava sopra, la sensazione di vuoto era pari a quella che si provava in Verdon. Quando si usciva in cima, fuori dalla pancia della “Mission”, guardando giù non si vedeva più l’ultimo rinvio, tanto era lontano sotto i piedi, né l’assicuratore, che era nascosto dalla bombatura della parete, ma solo uno scivolo di roccia grigia e compatta, che inghiottiva la corda nell’abisso. Cadendo, il volo era sempre molto lungo, e si temeva di rimanere sospesi nel vuoto, senza riuscire a riattaccarsi alla parete.
Qui c’erano i gradi depositati e certificati; così come il metro e il kilogrammo erano custoditi nel museo dei pesi e misure di Parigi, Buoux custodiva i riferimenti per le misure delle difficoltà di tutto il mondo. Ma “La rose “ è più dura… Allora la nostra via vicino casa non può essere 8b. Si sentiva mormorare spesso in ogni lingua.
A Roma già lavoravo con i corsi d’arrampicata e potevo permettermi di fare il barbone in giro ogni tanto. Il mio carattere schivo, però, mi creava molti problemi pratici per quel tipo di vita in solitudine. Non intrattenevo relazioni con nessuno della comunità, peraltro molto aperta; mi vergognavo a fare l’autostop per raggiungere la falesia, che distava 9 km dal campeggio, e facevo molta fatica a elemosinare qualche sicura.
Un giorno, però, accadde un evento, totalmente fortuito, che mi costrinse per un poco ad uscire dalla mia tana d’orso. Era arrivata al campeggio una famosa scalatrice francese, giovanissima, ma già molto brava, oltre che bella e fotografata. Io l’avevo, ovviamente, subito notata. Quella notte, nel buio della mia tenda, avevo onanisticamente immaginato un impossibile incontro con lei, e la mattina mi ero avviato verso la falesia particolarmente ringalluzzito. Arrivai al settore TCF che già il sole aveva scaldato un poco la roccia. Era questo il luogo deputato al riscaldamento. La vidi subito. Seduta su una roccia mentre si allacciava l’imbragatura. Con gli occhi verdi che le brillavano, incastonati in quella pelle bianca come due pietre preziose. Sola. E mi guardava salire il sentiero, arrivare, posare lo zaino, abbozzare un cenno di saluto. Mi guardava mentre imbarazzato osservavo le pareti come per scegliere una via da fare; mi guardava e io speravo non vedesse il mio terrore.
<< Sei solo? >> mi disse in inglese.
<< Sì sono solo >> le risposi in francese.
<< Ciao, mi chiamo “xxxx” >> mi disse subito. Ce l’aveva proprio con me, perché c’ero solo io, sì.
<<Incantato>>, risposi; e credetti di aver fatto già il massimo sforzo possibile, di avere avuto un coraggio e una sfacciataggine fuori dal comune, pur sapendo che “incantato”, in francese, lo usano tutti, come noi diciamo “Piacere”.
Ma io ero veramente incantato.
<<Se vuoi possiamo scalare assieme>>.
Oddio no. Quanto è più facile quando si sogna. E quanto poi è più difficile la vita reale, quando si sogna troppo. Nulla è gratis, neanche il vorticare impazzito di atomi nella mia mente, neanche un amore sognato o il bacio sulla bocca di una donna che non lo riceverà mai. Perché se ti abitui troppo a sognare, poi nella vita reale sarai troppo imbranato, e pagherai lo scotto. Costa essere dio, poter aprire e chiudere gli occhi ed essere qualunque cosa, anche suo, soltanto suo, e immaginare che lei possa immaginare me, soltanto me.
Dovrò decidermi, prima o poi, a insegnare alla mia mente a guardarsi dai fantasmi, pensai.
<<Va bene>> risposi. Pensando che avrei dovuto cercare di essere simpatico, ma non sfacciato. Ma non mi venne in mente assolutamente nulla da dire. Mi terrorizzava. Dovevo scalare. Farle sapere, al più presto possibile, che io avevo salito “La Rose”.
<< Su cosa ti scaldi di solito?>> mi chiese. Voleva capire il livello. Modo più elegante per chiedere “Che grado fai?”.
<< Quello che vuoi tu>> risposi. Ok. Cosi va bene, gentile ma un po’ coatto.
<< Intendevo su che grado preferisci scaldarti”. Insisteva. Voleva sapere il livello. Ormai ero in ballo, dovevo rilanciare. Sapevo che lei era molto forte e giocava pure in casa. Lei non sapeva nulla di me.
<< Scegli te la via, per me andrà bene>> risposi.
<<Ok, allora, “Dresden” ti piace?>>. Mi sfidava. Dresden è il 7a+ più duro del settore. E per nulla adatto al riscaldamento. Con un boulder infernale di dita. Una via che non fa mai nessuno perché chiodata lunghissima. La scelta tipica per il riscaldamento sarebbe stata TCF, 7a facilissimo, forse il più facile di Buoux, tutto a buconi. Ma a me andava benissimo Dresden. Mi invitava a nozze. Dresden la potevo fare come se avessi dovuto salire le scale di casa. Allora risposi con noncuranza. Cercando di non farle capire che la conoscevo bene, quella via.
<< Questa qua sopra? Va bene, sembra carina>>.
Era fatta. Mi misi le scarpette, presi 5 rinvii (ce ne sono 4 o 5 soltanto per venti metri di via). E partii. Ora non ero più un pesce fuor d’acqua. Prima ero un salmone che stava agonizzando sulla terra secca e ora di colpo venivo buttato nel torrente di montagna. Salii accarezzando gli appigli, fluido e rotondo come un fiume che scorre attorno alle rocce. Veloce ma non a scatti. Quei pochi momenti di sforzo li dissimulai perfettamente, superando il passaggio chiave quasi con noia, moschettonando quando ormai il rinvio era sotto di me, come se me ne fossi ricordato all’ultimo momento e, uffa, vabbè, passiamo pure sto rinvio. Neppure esagerai con inutili virtuosismi eccessivamente coatti o da atteggione. Semplicemente salii come se fossi stato senza peso. Arrivai in catena con l’indolenza di una rondine che è salita volteggiando sul suo cornicione.
<<Blocca>> dissi . <<Blocca!>> dissi ancora.
Mi presi alla corda con le mani.
Non mi stava guardando. Non mi aveva mai guardato.
Mi aveva dato la corda come se fosse stata intenta a lasciare una lenza nella corrente. Non mi aveva mai calcolato neanche di striscio.
Tornai a terra. La guardai. Ero di nuovo un pesce fuor d’acqua. Ti sei persa Gesù che cammina sull’acqua. Vediamo se sai fare di meglio. Vai: ora tocca a te.
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